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FERMARE TUTTO!

06/10/2025 17:55

Tui Lin

FERMARE TUTTO!

Fermare tutto! Ovvero: pregate ovunque, continuamente.

Fermare tutto! Ovvero: pregate ovunque, continuamente

 

“Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto.” 

— Elias Canetti, Massa e potere

 

Ci sono momenti nella storia e nel cuore in cui l’unico atto rivoluzionario è fermarsi. Non per diserzione, ma per invocazione. Fermare il gesto, l’urlo, il mercato, il traffico. Fermare tutto. E pregare. Pregare non come rituale religioso, ma come gesto cosmico, come si preme il polso della terra, come si ascolta il respiro del vento, come si stende una mano sull’abisso. Pregare per opporre alla velocità la quiete, all’efficienza la resa, alla connessione la comunione. Pregare per rendere inabitabile la menzogna e restituire sacralità alla polvere, al silenzio, all’uomo.

Pregare è sabotare il ritmo del potere. Il potere teme la preghiera perché non produce nulla, non genera profitti, non obbedisce. È improduttiva, inoperosa, inutile. E proprio per questo assoluta. Pregare è il più grande atto politico del nostro tempo: non per cambiare i governi, ma per disattivarli. Perché pregando ci si sottrae. Si scivola fuori dal programma, fuori dal consumo, fuori dal controllo. Pregare è uscire di scena per ritrovare la scena del mondo.

 

Io, reietto al tempo, merlettaio di ombre, scelgo questo modo di fermare tutto: mi chiudo in un santuario e prego. Occludo la palpebra di Dio, e in quell’ombra mi affaccio alla luce. Non importa quale Dio. Pregare è sempre rivolgersi a un’assenza che risponde. Può essere il dio-uomo, il dio-vento, il dio senza nome. Pregare non è appartenere, ma appartenersi. È lasciare che l’anima si apra come una ferita lucente.

 

Pregate per chi volete, per chi vi ha amato o tradito, per chi non conoscete. Pregate anche per confermare la vostra fede nell’idea, ma non fate dell’idea un idolo. L’idea che si fa idolo è la madre delle guerre. Pregate per addolcire l’ira, per far virare l’odio in contemplazione. Pregate per ore, per giorni, fermando tutto, fermandovi. Pregate per gli invisibili, perché i governi sono inermi. Pregate perché l’amore non sia un hashtag ma un atto di grazia che consuma. Pregate — ovunque — per il massacrato, per il mutilato, per l’oltraggiato, per l’affamato, per chi è inginocchiato dalla fame o dall’umiliazione. Pregate perché l’invocazione è più potente del pugno, più sovversiva del grido.

 

Che vengano allora le forze dell’ordine a sedare chi prega. Che vengano i blindati, i manganelli, gli idranti, a spegnere chi, in ginocchio, accende il cielo. Che vengano a picchiare chi ha vinto la sete. Che vengano. Non avranno il coraggio. Perché nulla spaventa il potere come un uomo immobile che prega, un uomo che invece di urlare tace, un uomo che invece di scagliare pietre chiude gli occhi e si apre. Pregare nelle piazze, nelle scuole, nei supermercati, nei tribunali. Pregare in latino, in greco, in arabo, in ebraico, in georgiano. Pregare perché ogni lingua diventi canto, pregare perché il mondo si fermi come un orologio rotto, e nell’immobilità ritrovi il suo battito. Pregare perché il caos fiorisca nel cosmo e il cosmo nel caos.

 

Il caos, diceva Eraclito, è fuoco eterno. Il fulmine governa il tutto. Eppure il caos non è rumore: è la musica delle origini, è la materia incandescente da cui scaturisce il cosmo. Chi prega non teme il caos: lo cavalca, lo carezza, lo doma, lo sella. Perché sa che il caos non è la fine, ma la matrice del divino. “Il sole è nuovo ogni giorno”, scriveva Eraclito. Ogni atto di preghiera è un’alba che brucia nel buio del mondo. Pregare allora è atto cosmico: farsi tramite tra il fuoco e la cenere, essere ponte tra l’invisibile e la carne. Pregare è accettare l’erosione di sé, come René Char invocava: “Il dolore contro la perfezione”. Pregare è lasciarsi erodere dal divino, goccia dopo goccia, finché la pietra dell’io diventa trasparente. Pregare è permettere all’acqua di scavare, al fuoco di purificare, al vento di portare via.

 

Ma come pregare nel secolo della distrazione? Come inginocchiarsi in un mondo che corre, che non sopporta il silenzio? Forse pregare è l’ultimo scandalo possibile. Pregare è l’eresia dei tempi moderni. Pregare è dire “no” al rumore, “no” al profitto, “no” all’accelerazione, e dire “sì” al mistero, sì al respiro, sì alla lentezza, sì alla sconfitta. Il ribelle autentico oggi non è chi incendia i palazzi, ma chi accende candele. Non chi urla nelle piazze, ma chi tace negli angoli. Non chi combatte, ma chi contempla. Perché la preghiera è una forma di guerriglia spirituale, è sabotaggio dei flussi, interruzione del consenso, diserzione dall’algoritmo. È un atto d’amore anarchico, senza padroni e senza scopo.

 

Pregate, dice Hakim Bey, per occupare le zone autonome del mondo invisibile, pregate per creare interstizi nel sistema, spiragli nell’acciaio del reale, pregate per fondare T.A.Z. spirituali, luoghi che sfuggono al controllo perché non sono luoghi: sono stati dell’anima. Pregate come atto di insubordinazione, pregate come azione diretta, come sabotaggio della rassegnazione. Pregate come se il cielo fosse un muro da scavalcare con la voce, pregate come se la libertà fosse un incendio da custodire nel cuore.

Pregare non è credere. È ardere. È diventare fiamma nell’eterno fuoco vivente. È toccare l’ignoto, come dice Canetti, e non tirare indietro la mano. È restare in contatto con ciò che spaventa, con ciò che salva. Oggi, mentre l’uomo si piega ai nuovi idoli — mercato, tecnologia, algoritmo —, la preghiera torna come arma primordiale. Non più rivoluzione, ma rivelazione. Pregare è dire al mondo: “Io non partecipo”. È disertare la guerra delle immagini, la fede nei dispositivi, la dittatura dell’utilità. È tornare ad essere parte del tutto, non ingranaggio del meccanismo.

 

Pregare ovunque, continuamente, è la risposta al disastro. È l’atto che rifonda il mondo perché lo sospende. Pregare è creare vuoto, e nel vuoto nasce la grazia. Pregare è tornare al principio, dove tutto era respiro. Forse, come scriveva Simone Weil, “solo chi si svuota può ricevere”. Pregare è questo: svuotarsi, diventare vaso, diventare eco, diventare silenzio che risuona del nome di tutto. Allora sì: fermiamo tutto. Non per fuggire, ma per risorgere. Fermare tutto è ascoltare. Pregare è agire. Pregare è l’azione più alta, più politica, più inutile e più necessaria del nostro tempo. Pregate ovunque, continuamente. Fermate tutto. Ora.

 

Fermare tutto - Italo Nostromo

 

Fermare tutto — posare il mondo sul palmo,

chiudere la città come un libro, respirare.

Inginocchiati nella luce che non ha nome,

preghiamo con le lingue rotte del tempo.

Silenzio come vento che serraglia le strade,

una mano sul petto del caos, e il caos respira.

Occludo la palpebra di Dio e vedo la stella

che tremula scende a contare le nostre ossa.

Pregare è sabotare il tempo: un atto senza conto,

un buco nell’ingranaggio dove cresce il canto.

Non importa il mondo che ti ha placcato addosso,

pregare è spogliarsi fino al nucleo del sale.

In piazza, in scuola, al banco del pane,

ci inginocchiamo e il rumore diventa eco.

Verranno con manganelli? Verranno gli idranti?

Che vengano — la preghiera è già roccia nelle mani.

Il fulmine governa il tutto, dice Eraclito,

ma qui la fiamma è lenta, goccia a goccia.

Erosione di parole: la pietra diventa sogno,

la bocca un pozzo, il silenzio un’organza.

Pregate per il massacrato, per chi non ha nome,

per l’umiliato che tiene ancora un filo di canto.

Pregate per il peccato che torna a fiorire

sotto il sole nuovo, ogni giorno, senza mestiere.

Non è fede che pretende: è un’arte di diserzione,

un’ancora nel vuoto, un’interruzione sacra.

Essere fiamma senza motivo, ardere senza ordine,

custodire il giardino che nessuno osa nominare.

Fermare tutto — e dal fermo, rinascere.

Svuotarsi come vaso, accogliere la notte come pane,

toccare l’ignoto senza ritirare la mano,

restare, infine, uomini che pregano il mondo intero.

le luci sfrigolano sui marciapiedi

i tram rallentano come pensieri stanchi

strade liquide, città che si scioglie

e noi — tra neon e cartacce — inginocchiati

a pregare il cemento, le biciclette rotte, i graffiti

perché tutto ciò che è stato violenza

può diventare canto se qualcuno resta fermo

io resto fermo, io resto goccia di luce

tra il fango e l’asfalto,

tra il rumore e il silenzio che pulsa

e il cielo che non si decide a cadere

 

Carlo Di Stanislao

 


 

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